Per una storia d’Italia come storia delle sue scuole

È tempo di bilanci (e di prospettive) come accade alla fine di un anno, e all’annuncio del nuovo – ché ‘nuovo’ si spera che sia. Il primo bilancio a scadenza riguarda la crociata ‘patriottica’ di Napolitano sui 150 anni dell’Italia unita: dalla primavera le prefetture han fatto la loro parte, e gli opinionisti hanno detto la loro. Poco più che un rumore di fondo, rotto da qualche urlo di storici revisionisti: vecchie minestre riscaldate su un paese (a loro giudizio) unito male e da colle scadenti, che si è diviso ad ogni urto. Parola chiave, unità sbagliata! Blande, quasi distratte le contestazioni: si è svegliata, dopo i richiami del Presidente, la nobile addormentata Accademia dei Lincei che chiama a Napoli per il 9-10 dicembre le accademie, e il 15-16 soci autorevoli della stessa ci diranno del contributo della cultura. Grande assente, impegnata a contenere i guasti della riforma Gelmini, la scuola di ogni ordine e grado. Eppure, provo ad argomentarlo da tempo, la scuola italiana – non tanto le cangianti vesti istituzionali, ma la vita vissuta di maestri ed allievi nei luoghi disparati che le sono toccati – costituisce insieme l’attore/fattore più importante dello sviluppo e dell’identità storica del paese Italia, ma anche il misuratore ‘onesto’ del cambiamento dell’Italia da moderna a contemporanea, con i denunciati squilibri territoriali, i limiti, i ritardi. La scuola si è, nei decenni della ‘preparazione’ dell’Italia a Stato nazionale, e dopo, sostituita a strappi alla chiesa e alla famiglia: e nell’Italia difficile della contemporaneità è rimasta – pur fra incertezze e ostacoli – lo spazio, il territorio della sfida che appartiene ad ogni generazione non rassegnata. E nel tempo a noi più vicino ha pur canalizzato – tra i precari e gli indignati – la contestazione di una politica che contrasta, o prova a vanificare ogni ‘storica’ conversione di bisogni in diritti – il diritto al lavoro, il diritto alla salute, il diritto all’istruzione.

E l’occasione offerta dai 150 anni della più ‘nobile scuola’ di Catania, il liceo-ginnasio Spedalieri, va perciò colta come opportunità per misurare l’imponente cambiamento della città e dell’intero paese rispetto all’avvio nel 1861, e dire dei modi e dei sacrifici con cui la scuola tutta – dalla primaria all’Università – ha contribuito a fare di Catania, e di questa parte dell’isola (ma non solo) un ‘luogo’ dell’Occidente. Quel ginnasio (che poi diventerà la Media ‘Manzoni’), che si continua nel liceo – già nella prima sede ai Chierici, e dal 1871 ai Benedettini – fu la porta d’ingresso all’Università, ed alle professioni come Giurisprudenza e Medicina che infoltiscono un gracile ceto medio che si autopromuove qui come altrove a classe dirigente. Negli anni Novanta dell’Ottocento, si apre in tutto il Mezzogiorno, lo scontro da sinistra e da destra sulla natura della borghesia meridionale, per i liberali soggetto dell’innovazione e della modernità, per i più erede nei pregiudizi e nella rendita dell’Italia ‘feudale’ – una definizione che associa gli scienziati sociali, per lo più giuristi di formazione e comparatisti ‘a danno’, e risponde a istanze provocatorie di innovazione.

Eppure il professore-simbolo del nostro liceo-ginnasio fu Mario Rapisardi: «Nelle mie lezioni, – ricorderà quando ha già lasciato il liceo per la cattedra universitaria – studio di preferenza il carattere morale dei grandi scrittori, giacché son persuaso che lo studio delle lettere è studio d’umanità, che la scuola è una palestra morale, una preparazione alle battaglie della vita. Faccio critica scientifica piuttosto che letteraria, e se ho per oggetto principale la letteratura italiana, non trascuro lo studio dei problemi estetici e morali che vi si connettono, né le necessarie comparazioni con le letterature contemporanee». E così lo avrebbero ricordato gli allievi, i tanti noti e gli altri molti di cui conosciamo solo i nomi in attesa di vederli all’opera nei tanti paesi dell’hinterland. E la generazione successiva vorrà aggiungere al mito di Rapisardi il mito di Francesco Guglielmino. Vitaliano Brancati, che gli fu allievo allo ‘Spedalieri’, nel 1942 gli scrive: «Fra la Sua e la mia generazione, c’è una generazione intermedia, quella che veniva a scuola da Lei con Marinetti da nascondere sotto il banco, e che gode la Sua e la nostra antipatia. C’è una generazione che ha disprezzato i Suoi insegnamenti (dico Suoi, perché Lei rappresenta tutto un gusto che io ammiro e amo fortemente) e ha voluto insegnare a noi delle sciocchezze. Purtroppo, nonostante la nostra diffidenza, non si può dire che un po’ di male non sia riuscita a farcelo: a Lei, per esempio, quello di darLe il sospetto, sia pure minimo, sia pure fugacissimo, che il mondo cambiava e Lei non lo capiva; a me quello di far scrivere, almeno fino ad una certa età, cose di cui dovrò sempre vergognarmi. E anche adesso sono riuscito veramente a dimenticare tutti i cattivi insegnamenti che ho ricevuto? Ho imparato a lavorare con quella serietà che la Sua generazione metteva e mette in ogni cosa? So io lavorare come vorrei?».

E si potrebbe continuare, con quello studio delle altre scuole, delle tecniche e delle scientifiche, e delle scuole d’arte, e delle normali-magistrali – che furono la via maestra per l’ingresso di donne nelle professioni, e che a Catania ebbero mentore eccezionale Giuseppe Lombardo Radice. Ma è uno studio che importa un mutamento radicale nel nostro modo di far storia della scuola, ora ‘vista da dentro’ – dalla parte quindi della domanda degli allievi e della risposta dei docenti, che a sua volta nel processo formativo sa alimentare nuove curiosità e interessi e suscitar perciò domande sempre nuove. Così i miti, di Rapisardi di Guglielmino di Lombardo, non sono liturgie nostalgiche ma solo manifestazioni estremizzate di una operosità capace non solo di consumare cultura ma anche di produrne, nella letteratura come nella pratica delle professioni o nella ‘moralità’ dell’arte.

Perciò alcuni anni fa raccolsi in un volume (Per la storia d’Italia come storia delle sue scuole, 2007) le proposte, i progetti di importanti uomini di scuola – da Tullio De Mauro a Margiotta Broglio, da Franco Lo Piparo a Simonetta Soldani – dai commenti agli scritti postumi e all’attività docente di mia moglie, Maria Musumeci, e ho affidato ad una Fondazione questo compito di ordinamento, di studio e di ricerca. Salvare gli archivi delle scuole, studiarne la storia ‘interna’, il contributo al difficile passaggio dalla modernità ottocentesca alla contemporaneità che siam chiamati a governare se non vogliamo essere invece che attori agiti dal tempo in cui viviamo. Bilancio modesto certo, ma promessa – se vorremo – di un futuro migliore: la formazione ha oggi altri protagonisti, ma la scuola resta in tutto l’Occidente il luogo vero della sfida e della promozione.

Giuseppe Giarrizzo