I luoghi, la memoria, i miti

di Anna Carta

Intere generazioni sono passate per quelle aule.
E non v’è alcuno fra tanti che non volga con nostalgico pensiero uno sguardo a quell’edificio
col quale non si connette per loro alcun ricordo triste.

(Guglielmino)

E laggiù, nello splendido Mezzogiorno,
sono stato fortunato nelle mie amicizie.
Se chiedo alla memoria un conforto, essa mi porta in folla
i ricordi degli amici, e le sedie intorno a me si mettono a scricchiolare come se non fossero più vuote.

(Brancati)

Nel suo Discorso inaugurale, tenuto nel 1861 in occasione della fondazione del Regio Liceo Ginnasio, il Can. Giuseppe Coco Zanghì, primo Preside dell’Istituto, ragiona con una platea di studenti e docenti sulle prerogative umane, sul nesso educazione-civilizzazione e sull’utilità di curare lo spirito nei suoi due fattori: intelligenza e affetto. Parla a un pubblico nuovo di zecca. In quella lontana occasione, il teologo afferma che, certo, il cuore va educato con una giusta lettura dei testi sacri. Ma pensa anche – attraverso un rinvio dall’organismo umano a quello collettivo – che l’istruzione della mente debba tenere conto del funzionamento di una “fisica sociale” (il concetto è ripreso dallo scienziato belga Lambert-Adolphe-Jacques Quetelet), che Zanghì chiama “meccanica o fisiologia dell’uomo collettivo”, cui contribuisce il corretto studio delle discipline: da quelle naturali – attraverso la Matematica, la Fisica chimica, l’Astronomia elementare – fino alla Storia e alla Filosofia. Sono, in cuna, i primi vagiti di un modello culturale che a lungo influenzerà il costume intellettuale catanese: la convinzione “positiva” che le leggi che regolano fatti e fenomeni, individuali e generali, si possano comprendere, e proprio per questo definire e spiegare. Sono anche i primi vagiti del “Nicola Spedalieri”, e c’è molto di originario in questo inizio. Il riferimento alla Patria con cui si apre l’inaugurazione basti a ricordare che in quel lontano 1861 si faceva l’Italia1. Una nascita dentro una nascita, dunque, quella del Regio Liceo la cui vicenda, correndo parallela agli eventi della formazione dello stato unitario, in capo a vent’anni si inscenerà in uno sfondo d’eccezione. È il 1871 quando l’Istituto si trasferisce nel Monastero di S. Nicola, un luogo che da lì a dieci anni Federico De Roberto consegnerà definitivamente alla storia e al mito nei suoi Viceré. Perché il mito dei monaci crapuloni e dissoluti esisteva già, circolava da tempo in città e abitava da secoli corridoi e alcove ora deserti del Monastero, gigante che ha attraversato la Storia portandosi dentro quegli “scravagghi niuri” contro i quali già Tempio nella Carestia non aveva risparmiato il proprio sarcasmo e che ancora una volta – siamo nel 1881 – e con abuso di retorica, vengono rievocati in un discorso augurale del Professore di Lettere italiane Settimio Cipolla come modello negativo cui contrapporre una nuova verginità di idee e di intenti:

«Giovani egregi: questa sala dove noi siamo riuniti, dove la patria rende oggi il più bel tributo d’onore ai più eletti dei suoi figliuoli, questa sala dove noi veniamo ogni giorno a spezzare in comune il pane della scienza, meno ancora di vent’anni addietro, serviva al lusso d’un convento di frati oziosi, a cui dava il pascolo la miseria e l’abiezione del proprio paese. Queste stesse pareti questi poveri sbiaditi affreschi, erano testimonj di una vita che assai poco ricordava quella dei laboriosi monaci di Monte Cassino, dei quali solo il nome usurpava. A quella porta ove tutti i giorni centinaia di giovani si affollano per entrare in questo edifizio sacro ora alla scienza, a quella stessa porta vedevasi una volta la miseria e lo squallore di una gente abbrutita, che veniva a mendicare i residui dei frateschi banchetti. Confrontate, o giovani, confrontate il luttuoso quadro di quella vita con questo di cui voi siete ora gran parte; e giudicate dell’opera rinnovatrice del tempo, e di quella che hanno compiuta i vostri padri, lottando contro le insolenze della fortuna e la iniquità degli uomini»2.

Come la città che lo contiene, quella che per quasi un secolo sarà la sede del Liceo Spedalieri fu luogo di forti contrasti: tra forma e funzione, tra contenitore e contenuto, tra obblighi della vita monastica e vocazione mondano-laica di un edificio che in ogni suo aspetto sembra fatto più per stupire che per innalzare l’anima a Dio. Il tempo e lo spazio avevano trovato pertanto felice innesto nel luogo più singolare di Catania3; all’interno del Monastero di S. Nicola storia e geografia avevano generato un mito dal quale sarebbe stato difficile disconnettersi alla ricerca di nuove aurore e castità. Adesso più di prima, ora che – con la apertura delle porte agli studenti e ai docenti – viene spalancato l’ingresso alla vivacità della dinamica sociale e favorito l’innesto tra ceti cittadini e gruppi provenienti dalla provincia, da quel luogo già circondato da un’aura storico-letteraria in breve prenderà a esercitarsi una nuova forza centripeta, alimentata da quella potenza esperienziale senza la quale la memoria non si incide stabilmente, il mito non si forma. Le aule dei licei-ginnasi, è un fatto della storia italiana, sono state luogo di passaggio del ceto culturale, di formazione della classe dominante e in alcuni casi di promozione sociale. Il catalogo dei catanesi illustri che occuparono le cattedre e che passarono per i banchi dello Spedalieri è già stato compilato; ci sono i preziosi Annuari e le pubblicazioni dedicate ai precedenti anniversari a ricordarne i nomi. Quello che forse è stato tralasciato, perché meno facile da dare per scontato, è che all’interno di quelle aule e lungo quei corridoi sia fermentata una memoria generazionale, una particolare modalità della memoria culturale che poi la letteratura – grancassa e generatrice a sua volta di elaborazioni mitiche, supporto e pegno della memoria – non ha mancato di tramandare. Zona di contatto tra il presente e il passato, in cui passato della storia e il presente della percezione non smettono di interagire, il Monastero-Spedalieri ha prodotto un pensiero di sé, e accanto a una memoria del luogo in senso soggettivo (come potenza evocatrice propria dell’edificio) ha preso lentamente forma una memoria del luogo (una memoria che ha come oggetto personaggi e vicende legate al luogo). Lo Spedalieri è una scuola “narrata”; o meglio, repertorio di invenzioni narrative. A partire dall’atto originario: la prepotente e abusante appropriazione dello spazio da parte dell’Istituto e degli studenti, prima ricordata da De Roberto nella sua guida di Catania e poi da Antonio Aniante nel Paradiso dei 15 anni, romanzo integralmente ambientato al Liceo Spedalieri e complice consapevole della diffusione della leggenda (ancora viva) che ha stabilito che i sotterranei del Monastero siano stati luogo di peccaminosi incontri clandestini:

«I frati gesuiti fabbricarono un grande convento, or sono molti anni, sovra un’altura, ombelico della città, da cui si domina mare e montagna ci rimasero, prima, da brava gente, appartata dal mondo e dai piaceri delle alcove proibite, dopo, furono cacciati via da Garibaldi, dietro l’accusa di poca serietà e d’alcun rispetto verso i dogmi della religione. Ponti e sotterranei senza fine avevano eretto e scavato nelle adiacenze e nelle visceri per tenersi a contatto con le signore più aristocratiche, e mangiavano braciole e pane viennese in luogo delle lenticchie e del granturco. Quando le camicie rosse si installarono nel palazzone istoriato, le amanti e i mariti traditi s’affrettarono a sbarrare le porte di comunicazione e a chiudere i passaggi. I peccatori si dispersero per il mondo, portandosi nel cuore il ricordo delle forme impeccabili e dei baci passionali della Venere di Magna Grecia. La democrazia ha tagliato a fette larghe il convento, con la stessa gioia dei cocomerai di Porta Uzeda sotto gli archi della marina jonica, distribuendole in parti eguali ai vari Ministeri della Guerra, del Mare e dell’Istruzione Pubblica […] I ragazzi di svariate generazioni facevano davvero i vandalici durante il bivacco nel deserto convento, tra scioperi e giuochi, hanno devastato in gran parte la linea severa del monumento, cancellando, a sassate e a colpi di inchiostro, le bravure degli antichi arteficii».

Con un occhio ai dati anagrafici riportati negli elenchi degli iscritti al ginnasio e al liceo e con l’altro alla quantità di relazioni produttive che si intrecciarono tra quei banchi e che travalicarono il ristretto ambito locale per inserirsi in reti più ampie di rapporti rilevanti su un piano storico-letterario, non si può non notare che a essere protagoniste di una esperienza speciale e dai tratti riconoscibili siano state le generazioni nate tra il 1894 e il 1907 circa. Dallo Spedalieri passa, viene lavorata e si dirama la vicenda di una delle generazioni più interessanti dell’intera storia letteraria catanese (se si esclude la triade Verga-Capuana-De Roberto): quella degli scrittori attivi a Catania tra le due guerre, una generazione che inizialmente transitò all’interno del fascismo per poi elaborare, se si esclude il caso del “fascistissimo” Interlandi, forme di contropressione critica e strategie espressive che aggirassero la sorveglianza della censura (si veda in proposito tutta la produzione di Brancati che va dal 1934 al 1943). Dentro le classi e nei caffé all’aperto, su e giù per una via Etnea ancora calda dei fuochi rapisardiani, ma anche del malumore di Verga e del disincanto di De Roberto, i figli di una piccola e media borghesia inurbata da Valguarnera, Mineo, Chiaromonte, San Pietro Clarenza, Adrano, Viagrande, Pachino, trovano un luogo di aggregazione e una promessa di riscatto culturale tra i banchi dello Spedalieri. È la generazione dei Telesio Interlandi, Antonio Aniante, Francesco Lanza, Aurelio Navarria, Mario Zangara. Fu allo Spedalieri che il giovane Interlandi, siciliano di Chiaromonte Gulfi, diede le prime prove di sé. La sua carriera scolastica si conclude nell’a.s. 1910-11 – un anno caratterizzato da scioperi e contestazioni studentesche – quando consegue il diploma con voti molto alti ma anche una grave sospensione per dieci giorni da tutte le materie. Ombroso intellettuale e pericoloso giornalista, tristemente noto per essere stato il più coerente e tenace sostenitore del pensiero antisemita in Italia, Interlandi fu a tal punto «immerso nella vita e nello spirito dei suoi tempi» che – dopo l’esperienza bellica come sottotenente di artiglieria – si trasferirà a Torino e poi Roma a dirigere la testata giornalistica che dopo il delitto Matteotti divenne «l’organo legittimo seppur irregolare della intellettualità fascista»: «Il Tevere».

Attorno a Interlandi, mecenate di siciliani a Roma, per anni si concentrò una rete di scrittori catanesi molti dei quali ex allievi dello Spedalieri negli anni in cui anche lui aveva frequentato l’Istituto4. A Roma Interlandi vuole accanto a sé il giovane Lanza, scrittore certo più dotato di lui, anche se più tormentato e schivo, e Aurelio Navarria, studioso e amico fraterno di Lanza sin dai tempi dello Spedalieri, dove entrambi si erano diplomati nel 1915 dopo aver frequentato insieme per anni la sezione “B classica”. Tra i membri della giuria che stabilisce di assegnare al giovane Brancati il premio “Fausto Maria Martini” per l’opera teatrale Caporetto, oltre a Giuseppe Bottai, Roberto Forges Davanzati, ed Enrico Rocca, c’è Telesio Interlandi. È lui che vuole stabilmente Brancati a Roma alla fine del ’32 come redattore de «Il Tevere» e poi caporedattore di «Quadrivio» nel 1933. Sempre a Interlandi, Brancati si rivolge al fine di tentare una strada per la riabilitazione di Borgese messo ai margini dal fascismo ed emigrato negli Stati Uniti; da Interlandi Brancati si congeda nel momento in cui matura la propria presa di distanza dal regime e stabilisce di rientrare a Catania. A differenza di Lanza e Navarria, Brancati non aveva incrociato Interlandi allo Spedalieri. La sua è una generazione di poco successiva, quella di Salvatore Battaglia e Vincenzo Pernicone – che frequentano il Ginnasio ad Adernò (Adrano) per poi scegliere di fare il Liceo a Catania, allo Spedalieri – e di Gino Raya, con cui Brancati fonda la rivista «Ebe», piena di velleità estetizzanti ma poco longeva. Hanno tutti tra i quindici e i sedici anni quando vanno a scuola con Francesco Guglielmino e Nunzio Vaccaluzzo. «Fu al Liceo Spedalieri di Catania che scoprimmo la nostra vocazione agli studi letterari, sollecitati da due insegnanti di eccezione per la loro cultura di livello universitario: Francesco Gugliemino per latino e greco, Nunzio Vaccalluzzo per l’italiano», scriverà anni dopo Vincenzo Pernicone ricordando la figura dell’amico, grande filologo e critico, Salvatore Battaglia. Entrambi a lungo docenti della sezione “A classica”, liberi docenti presso la Facoltà di Lettere di Catania e amici nella vita, Guglielmino e Vaccalluzzo, si collocano su una linea che confluisce – attraverso la critica romantica e positivistica – nella tradizione della scuola storica; Vaccalluzo in particolare, che continuò per decenni ad adottare il manuale di Bacci e D’Ancona, dovette rimanere inizialmente spiazzato di fronte alle prime ubriacature crociane, che considerava una ingiusta svalutazione del metodo del D’Ancona e del Rajna. Dalla difficoltà nel muoversi sul terreno scivoloso del giudizio estetico deriva la sua timorosa cautela nelle valutazioni e nelle stroncature e forse anche il ritardo con cui la Biblioteca d’Istituto acquisisce i testi fondamentali di Croce. Ma era animato da un forte senso della virtù e della funzione pubblica dell’intellettuale (fondò e diresse per decenni a titolo gratuito la Biblioteca civica “V. Bellini”), ciò che spiega il suo antifascismo e la sua propensione per gli aspetti politici e civili della produzione degli autori, che traspare anche dai titoli dei temi da lui assegnati in terza liceale5. Più moderato in politica e attento anche a una dimensione più intima e lirica, il poeta e studioso Guglielmino aggiornò invece il proprio metodo all’indirizzo “antifilologico” e storico-estetico di Fraccaroli e Romagnoli, le cui traduzioni dai classici greci ben presto occuparono gli scaffali della Biblioteca d’Istituto. Perché proprio Guglielmino e Vaccalluzzo, mettendo di fatto in ombra l’operato degli altri insegnanti, furono in grado di ritrovarsi al centro di una vicenda di formazione in alcuni casi intesa come vera e propria Bildung esistenziale e – cosa più rara a verificarsi – oggetto di una vera e propria mitopoiesi? La funzione del magistero svolto da Vaccalluzzo e Guglielmino su alcuni giovani di una generazione che si forma negli anni Venti a Catania può essere paragonata, pur tenendo ferme le differenti determinazioni geografiche in cui queste esperienze maturano, a quella svolta negli stessi anni da Augusto Monti su Pavese al D’Azeglio di Torino o, in senso più ampio, da Antonio Giuriolo su Luigi Meneghello. Ovvero da tutti quei “piccoli maestri” della provincia italiana che furono anche cerniere tra epoche cronologicamente vicine ma radicalmente distanti – non si trascuri il fatto che gli anni Dieci, in Italia e in Europa, sono avvertiti da parte degli intellettuali come uno spartiacque epocale e come la fine del “mondo di ieri” – e che trasportavano solidi saperi passati su cui poggiare i piedi verso un futuro allettante, ma incerto. Erano entrambi, Vaccalluzzo e Guglielmino, docenti a cavallo tra scuola e università, dove potevano lavorare a fianco di un Momigliano o di un Casella. Attorno a loro si respirava la stessa aria che era stata di Rapisardi (maestro di Vaccalluzzo)6, di Verga, di Capuana, di De Roberto (amico di Guglielmino). Avevano vissuto una stagione d’oro per la storia politico-economica catanese, l’era defeliciana, e avvertivano l’importanza dell’aver partecipato a una storia di peso. Pur non riuscendo a conquistarsi una consolidata fama scientifica (ma il valore della monografia di Vaccalluzzo su D’Azeglio fu da più parti riconosciuto), pubblicavano incessantemente saggi e studi, erano aperti, attenti, curiosi, attivi all’interno della pubblicistica locale e sufficientemente collegati al dibattito nazionale. L’apprendistato presso di loro fu un volano fondamentale per quanti, come Raya, Brancati, Battaglia e Pernicone, nutrissero ambizioni nell’ambito critico o letterario. Attorno a loro (specie attorno a Guglielmino) presto si coagulò un mito:

«C’è anche un vecchio professore, poeta vernacolo, privo di capelli, sempre con l’orecchio destro in avanti per sentire dal filo di udito che gli resta solo da quella parte, e tuttavia così amabile e ricco di bei pensieri. Egli per primo mi parlò della Grecia in greco, in un’aula luccicante del sole di Sicilia»; «Gentile professore […] Fra la Sua e la mia generazione, c’è una generazione intermedia, quella che veniva a scuola da Lei con Marinetti sotto il banco, e che gode la Sua e la nostra antipatia. C’è una generazione che ha disprezzato i Suoi insegnamenti (dico Suoi perché Lei rappresenta tutto un gusto che io ammiro e amo fortemente) e ha voluto insegnare a noi delle sciocchezze. Purtroppo, nonostante la nostra diffidenza, non si può dire che un po’ male non sia riuscita a farcelo: a Lei per esempio, quello di lasciarLe il sospetto, sia pure minimo, sia pure fugacissimo, che il mondo cambiava e Lei non lo capiva; a me, quello di far scrivere, almeno fino ad una certa età, cose di cui dovrò sempre vergognarmi».

Sono queste – scritte tra il 1941 e il 1942 – solo alcune delle pagine che Brancati dedicherà al maestro e amico e che lo confermano come il più assiduo divulgatore del mito di un Guglielmino simbolo della Welt von Gestern, incarnazione di quelle virtù ottocentesche che la prosa dello scrittore di Pachino non mancherà di utilizzare in funzione contrastiva nei confronti di un presente storico infido, sgraziato e noioso. A Guglielmino-Trampolini, Brancati affiderà il compito di pronunciare una delle chiavi di lettura della propria poetica: quella “teoria del malinteso” che giova a spiegare tanto del realismo brancatiano, che nel momento più inatteso devia nell’immaginazione, sfugge dal reale: «Occorre che i nostri sensi siano imprecisi e deboli, perché si intensifichi la nostra vita interiore. Noi abbiamo dei sogni che cercano di concretarsi in fatti. Quando la realtà è troppo precisa, essi sono costretti a perire. È bene, dunque, che noi siamo un po’ sordi e un po’ ciechi, per sentire e vedere quello che vorremmo. Tutti gli inganni sono a nostro favore»7.

Ma si può dire che, più in generale, un buon numero di personaggi tra quelli che Brancati descrive nei suoi romanzi gli derivi dalle durature amicizie strette durante gli anni di scuola. Una tra tutte quella con Mimì Rapisardi, conosciuto ai tempi del ginnasio, poi cambiato nell’Amico del vincitore, opera del 1932, nel personaggio di Mimì Rafaldi. In maniera simile, si può affermare che – benché dotato di minore capacità trasfigurativa – l’intero versante autobiografico dell’opera di Aniante non tralasci il richiamo agli anni di scuola. Così, trascorrendo dalle pagine di un registro a quelle di romanzi e racconti, passeranno i nomi dei compagni di classe (Vergata, Pistoja) e la memoria del primo amore (la signorina Ines, “al secolo” Garipoli Ines che in base ai registri abitava in via Plebiscito 633 con la madre Gaetanina8); entrerà a far parte della produzione di Aniante sia l’ammirazione incondizionata per un altro studente dello Spedalieri, il più giovane Gino Raya9 – poi studioso di Verga e inventore di uno strano indirizzo critico “fisiologico”, il famismo – che la rievocazione degli insuccessi scolastici. E dopo, come accennato, averci raccontato per un intero romanzo la vita di un ginnasiale dello Spedalieri, lo scrittore sceglie di chiudere anche le sue Obbrobriose confessioni nel segno di Nunzio Vaccalluzzo, un ricordo avvelenato dai cattivi rapporti che intercorrevano tra docente e allievo ai tempi in cui ne era stato scolaro:

«Per esempio, il professor Nunzio Vaccalluzzo, che introdussi di peso nel mio romanzo Il paradiso dei quindici anni. Non trovai modo di vendicarmi di lui, che divertendomi alle sue spalle nelle mie pagine di scrittore in erba. Non avevo tutti i torti per agire in tal guisa: questo cerbero mi aveva torturato al ginnasio, affibbiandomi zeri su zeri nei componimenti di italiano, con raffinata crudeltà. Egli leggeva ad alta voce alla intera scolaresca le mie prose, si soffermava su ogni errore, lo commentava, ci si divertiva sopra come il gatto con il topo, elogiava i passaggi geniali. Il supplizio durava un’ora, inframmezzato di fallaci complimenti; infine, dopo un ipocrita silenzio scandiva: “Zero!”. Io sprofondavo nella vergogna, nel sudore e nelle lacrime. Mi bocciava regolarmente a luglio e mi promuoveva pietosamente con sei in ottobre, proprio in italiano. “E ha la pretesa di fare il poeta!”, esclamava».

Ma se Aniante non poté mai risolvere il conflitto col “padre”, Gino Raya ne divenne studioso e divulgatore con un’opera intitolata Penne del novecento, saggi critici su G. Salvadori, N. Vaccalluzzo, A. Godoy10. Generosi padri – o forse bisognerebbe dire “parenti”, alla latina – oltre che maestri, Guglielmino e Vaccalluzzo. L’uno si trovò a piangere l’allievo e amico scomparso prematuramente, con la tristezza incredula di un padre che sopravvive al figlio: «I ricordi mentre scrivo mi si affollano nella mente e accrescono il mio cordoglio; gli ho voluto del bene fin da quando era giovinetto…». Il secondo spese per decenni se stesso e le sue sostanze a beneficio della città e di intere generazioni di studenti – compreso il giovane Aniante che ne fu assiduo frequentatore – nella direzione a titolo interamente gratuito di una Biblioteca popolare da lui fondata, la “Vincenzo Bellini”, e dotata di decine di migliaia di libri. Per essere infine sconfitto dal suo tempo storico, come quel Dante exul immeritus che più volte aveva commemorato e di cui non si stancava di tramandare l’esempio.

Lettera inedita di Nunzio Vaccalluzzo al Ministro De Vecchi, A S. E. il Ministro della Educazione Nazionale, Roma.

«Eccellenza, Massimo D’Azeglio, il cui omaggio le fu “particolarmente gradito”, m’incoraggia a scriverle la presente, ch’è un congedo dalla scuola, dopo un’intensa attività scolastica e letteraria: 40 anni d’insegnamento tra liceale e universitario e 19 volumi pubblicati. Eccellenza, io non sono fascista. Peggio: quando era ancora possibile, io firmai un Manifesto – che poi seppi scritto da Croce – contro uno di Gentile. Abituato a rispettare la mia firma, non lo sconfessai mai, onde ho subito da anni in silenzio alcune conseguenze, tra le quali la perdita della cattedra di Lett. Ital. E la rinunzia alla direzione di una Biblioteca popolare da e fondata. Resasi vacante la cattedra di Lett. Ital. nella Università di Catania, per il trasferimento del Momigliano a Pisa, la tenni io 4 anni per incarico, finché, messa a concorso, la Commissione (V. Cian presidente) propose una terna di cui il primo era Calcaterra e il secondo io; ma, Ministro Fedele, per quella firma non fu dato il nulla osta; e la commissione fece un verbale bianco, dicendo, per pudore, che non c’era stato accordo. La Biblioteca popolare V. Bellini, fondata da me a Catania, la diressi da solo, gratuitamente, con l’aiuto della mia Signora e de’ miei studenti, per poco meno di un ventennio dotandola di più che 12 mila volumi, mandandone un buon numero in dono ai sodati durante la guerra e raggiungendo la cifra di circa mille abbonati in città. Biblioteca popolarissima e decorosissima, un centro importante di movimento, visitata e lodata da Ministri e che diventò poi sede della Dante Alighieri di cui ero segretario. Lo zelo imprevidente di alcune autorità fasciste, che avrebbero forse voluto darmi la tessera, rispettosissime di me, ma raggirate da altri, mi misero in condizione di dar le dimissioni da una carica che avevo avuto a vita… Naturalmente la Biblioteca è morta e aspetta che V.E. trovi il tempo di ridestarla. Forse linguaggio libero il mio, Eccellenza, ma mi è stato detto che è il linguaggio più gradito a un uomo liberissimo e coraggioso come l’E.V. Io scendo dalla cattedra a testa alta, dopo aver dato tutto alla scuola, nulla chiesto e nulla avuto. Scendo sereno, senza rancore per nessuno; senza tessera sul petto, ma con l’Italia sempre nel cuore; l’Italia per la quale morirono non pochi de’ miei migliori studenti; l’Italia che in un Discorso cittadino in pubblico teatro, immediatamente dopo la Vittoria invocai commosso dicendo: “Ora posso morire”. E forse per questo amore congiunto a un senso di gelosa indipendenza di spirito io debbo qualcosa a M. D’Azeglio, la raccolta del cui Carteggio è stata una mia passione e sarà forse l’ultimo mio pensiero. Consenta, Eccellenza, che io mi congedi dalla scuola mandando un saluto augurale a chi oggi la rappresenta.

Catania, 20 giugno 1935

N.V.

1 «A te, mia patria, che ami la nobile armadura delle lettere, che tieni emblemi e simboli di intelligenza e di sapere, e che sei madre feconda di peregrini ingegni (V. Amico Cat. Illus.); a te è aperto nuovo tempio di sapienza per chiamarvi i figli tuoi alla classica istruzione. Questa non t’isgradirà di fermo, se curandosi sempremai appajarla degli affetti, si avrà la mira di apprestarti forze vive intelligenti e benefiche, che sieno immagini dell’Altissima Providenza nel sollievo dei miseri. Dov’è mente colta senza affetto religiosamente educato, ivi è volume apparente; non vi è massa da far peso nel bilancio delle nazioni! Se non fallo gli è questo il programma della mia scritta augurale. Che tu l’accolga, o patria, come pegno almeno di buon volere, ove le mie forze non rispondano allo scopo. Catania. Dal Real Liceo di prima classe, 19 dicembre 1861», Can. G.C. Zanghì Per la inaugurazione del Real Liceo e Ginnasio di Catania. Discorso, Galatola Catania, 1862.

2 S. Cipolla, Ai giovani del liceo Spedalieri per la solenne distribuzione delle licenze d’onore nell’anno scolastico 1880-1881, Fratelli Galati tipografi-editori, Catania 1881.

3 «Questo è, o per meglio dire era prima della soppressione, una delle singolarità di Catania: andati via i Padri per dar luogo ai soldati e agli studenti, i lunghi corridoi furono divisi e suddivisi, il più antico ed elegante chiostro fu trasformato in palestra ginnastica, una strada fu aperta nei terreni che lo circondavano, un osservatorio ed un ospedale furono eretti nei suoi giardini» (F. De Roberto, Catania pp. 92-93).

4 V. Cardarelli, Introduzione a T. Interlandi, Pane bigio, L’Italiano editore, Bologna 1927. Il libro inaugura la preziosa e limitata serie di volumi editi da Longanesi, allora direttore della rivista «L’Italiano». «Quando un erudito del duemila scriverà una tesi su Le polemiche culturali a Roma nei primordi dell’era fascista, potrà intitolare il suo libro. “Caro Interlandi”», M. Bontempelli, Rispondo a venti articoli, in «Il Tevere», 24-25, 1926. Sul ruolo di Interlandi e delle riviste da lui dirette durante il ventennio, cfr. F. Cassata, La difesa della razza. Politica, ideologia e immagine del razzismo fascista, Einaudi, Torino 2008.

5 Lirica civile di Alfieri, Machiavelli, Dante, Paradiso IV, I sonetti del Çaira di Carducci: questi i temi prediletti nell’a.s. 1923-1924.

6 Durante la commemorazione del primo anniversario della morte di Mario Rapisardi, il 4 gennaio 1913, sarà Vaccalluzzo (insieme a Giambattista Grassi Bertazzi) a tenere un discorso di fronte agli studenti, contestualmente inaugurando la effigie in bronzo ancora oggi visibile al Monastero, in un corridoio del secondo piano.

7 V. Brancati, Trampolini si imbatte in una donna alle soglie del Giardino Bellini; cfr. anche Una conferenza di Trampolini al Lyceum di Catania.

8 È lei il personaggio poi insistentemente narrato da Aniante in Il paradiso dei 15 anni e in altri libri e novelle. In Obbrobriose confessioni (Il primo amore) scrive: «Potevo avere tredici anni quando mi invaghii di una gentile compagna di ginnasio; ricordo che fu al primo giorno di scuola, alla prima ora di latino, mentre il professore ci traduceva e commentava Piramo e Tisbe di Ovidio. La fanciulla dei miei sogni non mi prestò alcuna attenzione, non si curò mai dei miei tormenti, non rispose mai alle mie lettere. Più tardi mi rivolse la parola, una sola volta, ma per dirmi che con la morte della sua adorata mamma aveva deciso di farsi suora missionaria» (pp. 137-138).

9 A. Aniante, Il famismo. Cogito? No mangio dunque sono, Pan, Milano 1977: «Chi scrive ha conosciuto, frequentato, studiato, uomini di grande rilevanza nella cultura o nell’arte del Novecento, Pirandello Bontempelli Picasso Gide…; ma deve oggi riconoscere che nessuno di costoro ha carte più in regola di Gino Raya, l’inventore del famismo», p. 5. Di Raya parla anche, esaltando la sua illuminante e lucida filosofia antimetafisica, in A. Aniante, La triade catanese. Tempio, Verga, Raya, in «L’osservatore politico letterario», anno XXII, a. 1976, n. 5. Aniante era collegato a Gino Raya anche attraverso il fratello maggiore di questi, Agatino, suo compagno di classe al ginnasio e in prima liceale.

10 Penne del novecento, saggi critici su G. Salvadori, N. Vaccalluzzo, A. Godoy, Prampolini, Catania 1948 (poi in una più ampia raccolta dal titolo G. Raya, Penne del novecento. Saggi di critica fisiologica, Cedam, Padova 1964).