di Giuseppe Dolei (1)
Una triade di docenti illuminava di luce singolare il triennio del mio (e non solo mio) liceo classico. Comincio dal professore più longevo. Liborio Santangelo (1897-1968), titolare di latino e greco, sembrava l’incarnazione dell’imperturbabilità classica, un’atarassia che egli impersonava assai più che non predicasse. Compagno del grecista (e poeta dialettale) Francesco Guglielmino, Santangelo ne avrebbe condiviso la luminosa carriera universitaria, se una congenita malattia agli occhi non lo avesse condotto ancora giovane alle soglie della cecità. Così l’appassionato grecista (era più di casa ad Atene che a Roma) riversò nella didattica le energie che non aveva potuto dedicare alla ricerca scientifica. Non solo il greco ci ha insegnato, ma anche e soprattutto la saggezza dell’umanista, che sa distinguere le cose veramente importanti, e delle altre si cura solo quanto basta.
Il valente cultore di lettere classiche propugnava lo stile di lavoro dell’artigiano: ci dava da tradurre sei righe di prosa o dieci versi per volta. Cresceva così il numero degli studenti invogliati a fare la traduzione e a tenersi in allenamento. Per gli esami di maturità il suo talento didattico provvide a sfoltire il programma di letteratura greca da tutti gli autori minori e minimi. Col risultato che davanti alla commissione esaminatrice gli sventurati candidati della classe abbinata alla nostra penavano e inciampavano alla ricerca di nomi privi di sostegno per la memoria, mentre i maturandi della mia sezione, anche i più ciuchi, su Sofocle o Aristofane qualcosa sapevano pur dire.
Poco prima degli esami Santangelo mi convocò a casa sua, dove non ero mai stato e dove potei ammirare una splendida carta storica della Grecia antica che faceva la parte del leone nel suo studio. Naturalmente si parlò degli esami imminenti, ma con un tono, da parte sua, che lasciava capire come non fosse il caso di drammatizzare. Quindi fu sfiorato il tema del mio futuro. Dico sfiorato, perché il saggio professore capì subito che ancora non avevo le idee chiare circa la scelta della Facoltà. Si limitò perciò ad osservare che ogni carriera vale la pena di essere prescelta, se si ha la capacità di percorrerla sino al massimo del suo sviluppo. Poi, con incantevole naturalezza, provvide a distrarre l’attenzione del confuso allievo dalle incognite di un destino incerto alla realtà di un destino ormai concluso.
Spostò il discorso sulla sua carriera e sulla svolta che l’aveva frenata, modificando il corso della sua vita. Si era iscritto in lettere classiche all’epoca della grande guerra, la quale peraltro non aveva avuto incidenza alcuna sugli studi dell’aspirante grecista. Già allora la sua miopia era talmente forte da comportare l’esonero dal servizio militare. Essendo la modestia in persona, nessun accenno mi fece quell’uomo a un piccolo trionfo politico nell’immediato dopoguerra. A soli ventitrè anni egli era stato eletto (12 settembre 1920) consigliere provinciale a Trapani nelle file del Partito Popolare Italiano. Era già docente di liceo e si apprestava a mettere su famiglia e a proseguire gli studi prediletti. Fu a questo punto che la vista del promettente giovane si abbassò in modo preoccupante. Fu necessario consultare un oculista e arrivò la terribile sentenza: cecità assoluta entro il quarantesimo anno d’età al massimo. «La mia fidanzata», proseguì il pacioso professore, «non volle credere a un responso così negativo e mi portò, insieme con i futuri suoceri, da un secondo oculista e da un terzo ancora. Ma, nonostante fossero consultati per smentire l’orribile diagnosi, tutti gli specialisti furono dello stesso parere: sicura cecità totale».
A questo punto Santangelo interruppe il suo racconto ed io fui come fulminato da un’intuizione. «Ecco dunque la verità!», pensai e la mente volò a una scena dell’anno prima. Doveva essere aprile avanzato, se non maggio addirittura, perché al mio ricordo si associavano un silenzio sonnolento, interrotto dal ronzio di un calabrone; un cono di luce che lasciava in fitta penombra metà dell’aula, e i colori vivaci di magliette e camicie dalla manica corta. Il miopissimo Santangelo leggeva e traduceva alla sua inconfondibile maniera. Passeggiava lentamente tra i banchi reggendo con la sinistra il libro incollato a pochi centimetri dagli spessi occhiali e rivoltato sul dorso in modo da ridursi alla superficie di una pagina sola. Col tono suadente di sempre il vecchio ma atletico insegnante ci recitava il canto sesto dell’Odissea: l’arrivo di Ulisse nell’isola dei Feaci: il suo sonno interrotto dalle grida di vergini dedite al gioco della palla; l’orrenda apparizione del suo corpo, nudo e bruttato di sabbia e salsedine; la fuga sgomenta delle ancelle “dai riccioli d’oro”, con l’unica eccezione di Nausica, resa forte da Atena.
Qui seguiva la supplica dell’eroe. Accorta e diplomatica nella sua prima parte, essa fu recitata con voce spedita da Santangelo, che intervallava tuttavia la sua traduzione con congrue pause per facilitarci la comprensione del testo. Ma al momento di tradurre il finale, in cui la supplica di Ulisse si trasforma nell’augurio del massimo bene per la bella sovrana, quelle pause divennero più lunghe e non sembravano giustificate dal testo, che in quel punto scorreva liscio come l’olio: “E a te gli dèi concedano quanto nel tuo cuore desideri, un marito e una casa, e per compagna la fedele concordia”. Invece la voce del traduttore si era incrinata. Sentii il suo passo arrestarsi accanto a me e contemporaneamente vidi una grande mano lentigginosa appoggiarsi sul mio banco, come in cerca di sostegno. Ulisse esplicitava ora il suo augurio, ma era, nell’intonazione dell’interprete, come se l’eroe in quel punto fosse vinto da un’emozione prepotente: “Giacché non c’è per i mortali bene più saldo e più prezioso della famiglia, in cui con pensieri concordi reggono la casa un uomo e una donna”. Nella famiglia dunque, che gli era stata negata, era inciampata la voce del valente traduttore, mentre una grossa lacrima scendeva sotto all’occhiaie prima che il fazzoletto, prontamente ghermito dalla tasca, potesse nasconderla alla nostra vista. A sera di sua vita Santangelo piangeva in silenzio per la mancata famiglia, che in età più matura aveva comunque voluto ricostituire adottando un ragazzo dal promettente talento: Nino Valenziano Santangelo, come molti giovani siciliani, è diventato avvocato. Ma, quasi a premiare l’intuito del padre adottivo, in età matura è stato folgorato dall’arte ed è oggi un geniale scultore di pietra lavica.
«Naturalmente ruppi il fidanzamento», concluse intanto quel figlio legittimo della Magna Grecia con una pacatezza che faceva a pugni con l’argomento rievocato, «non volevo dare ai miei figli un padre cieco… e anche i miei studi furono interrotti sul più bello. Già per la sua scrittura, il greco mi avrebbe consumato quel poco di vista che mi restava. E cieco però del tutto non sono diventato né a quarant’anni, né ora».
Liborio Santangelo morì che era già in pensione, travolto da un camion mentre attraversava la strada sulle strisce pedonali. Così si seppe ufficialmente quello che solo pochi sapevano per sentito dire. Mare permettendo, quel lontano discendente di Pindaro amava fare i bagni anche d’inverno. Scendeva a piedi fino al borgo marinaro di San Giovanni Li Cuti, dove un barcaiuolo di fiducia lo portava al largo e lo riportava a riva dopo la consueta nuotata. E a San Giovanni LiCuti si recava il giorno in cui la sua debole vista non gli consentì di difendersi dalla pirateria di un camionista. L’ultimo bagno gli fu fatale, scrissero i giornali. A me pare invece che il destino, dopo avere tanto infierito su un umanista di raro equilibrio, abbia voluto risparmiargli almeno le umiliazioni di una vecchiaia orfana della prestanza fisica e mentale.
Miracolo di memoria delle nostre smemorate istituzioni civiche, il Comune di Catania ha di recente (3 luglio 2004) intitolato all’umanista Liborio Santangelo la stradina sulla quale il suo agile piede era sempre passato poco prima di attingere l’ebbrezza salmastra del mare Ionio. Tolte le lenti, gli occhi distinguevano appena il nero delle rocce dall’azzurro delle onde. Al di là delle quali però la mente indovinava l’Acropoli di Atene e l’agorà e Socrate amorevolmente conversante con Alcibiade su miseria e grandezza della natura umana.
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Santangelo faceva ai programmi ufficiali uno sconto accorto. Ma il loro più radicale nemico e spregiatore era Salvatore Geraci (1895-1957), filosofo coltissimo e antifascista crociano tanto convinto da restare escluso dall’insegnamento universitario prima per ragioni politiche e poi per ragioni ideologiche: alla caduta del fascismo seguì nella Facoltà di lettere di Catania l’instaurazione del neotomismo. Niente da fare per un crociano. Geraci ci ha insegnato la filosofia come arte faticosa di interpretare la vita e i suoi problemi. Perciò i programmi ministeriali venivano all’ultimo posto, dovendosi discutere ora della censura, ora della Costituzione italiana, ora dei partiti politici, e di quant’altro capitasse all’ordine del giorno. I manuali scolastici restavano rigorosamente chiusi sui banchi e tutti dovevamo pensare a risolvere le questioni di volta in volta sottoposte alla discussione.
Geraci era un crociano ardente, ma in lui il calore delle passioni veniva purificato dalla compostezza scientifica. Era solito prendere partito nella maniera più distaccata possibile: «Debbo avvertire che nel caso di Giordano Bruno la chiesa cattolica ha promosso e avallato una delle azioni più infami contro la libertà di coscienza». Ma talvolta anche lui lasciava sussultare con forza spontanea i dettami del suo credo. Ancora oggi ricordo con divertimento l’occasione in cui si scontrò col suo allievo prediletto: un rubesto figlio della provincia catanese, che aveva precocemente divorato mezza biblioteca comunale a Militello e si era votato al marxismo con l’irruenza del neofita e la presunzione della giovinezza. Non solo il Manifesto del partito comunista,ma anche il Capitale di Carlo Marx si piccava di aver letto quel marxista in erba, che veniva educando le sue straordinarie capacità dialettiche nelle assemblee di partito o negli impegnati dibattiti alla “Casa della cultura”.
Da buon liberale, Geraci ne aveva stima e, anche sotto la maschera della condiscendenza, gli dimostrava una forte simpatia. Ma un giorno l’impertinente marxista portò al tavolo dell’interrogazione un libro dal quale, a sostegno di una su a tesi, cominciò a leggere un brano di Lenin. Il quale, incidentalmente, irrideva al parlamento e alla sua funzione nelle democrazie borghesi. Leggere questo inciso e intuire che forse anche il grande Lenin l’aveva detta grossa fu tutt’uno per quel mariuolo di allievo. Cercò dunque di glissare veloce veloce per attirare l’attenzione sul punto che veramente gli premeva, e che si affrettava a recitare con enfasi raddoppiata. Ma il professore, che nel silenzio religioso del pensatoio collettivo era solito concentrare tutta la sua attenzione sulle parole dell’interlocutore di turno, ebbe un moto incontenibile di disappunto, se non di disprezzo, tanto per la disinvolta sentenza di Lenin, quanto per il modo astuto con cui il giovane cercava di trarsi dall’impiccio.
«E no, caro Di Giorgi», sbottò a dire interrompendo l’allievo prediletto, «questa non gliela faccio assolutamente passare. Il parlamento avrà i suoi difetti, ma liquidarlo come una sovrastruttura della società borghese la quale decide altrove i suoi affari, mentre fa finta di credere all’importanza del massimo organo rappresentativo per ingannare il popolo allocco, questa è proprio grossa». E qui a tirare in campo, con malcelata soddisfazione, i precedenti più illustri, tratti soprattutto dalla storia inglese, nei quali l’importanza sostanziale del parlamento era fuori discussione.
Solo formalmente Geraci poneva le sue domande agli studenti di volta in volta interrogati, in realtà le gettava nell’arena della riflessione comune. Un giorno lanciò il quesito: che cosa Socrate intendesse quando si appellava al suo demone. Folgorato da un’improvvisa intuizione, mi prenotai per la risposta e dissi : «La voce della coscienza, credo». Geraci restò piacevolmente sorpreso e, come meditando un verdetto, proferì: «Però, … nel caso del Dolei bisogna pur dire che… l’abito non fa il monaco». Portavo ancora i pantaloni corti e Geraci, che era l’unico professore a darci del lei e a gratificare i nostri cognomi dell’articolo determinativo autoriale (la Bernardini, il Conticello), li giudicava inadeguati ai piccoli uomini che voleva fossimo diventati al liceo.
Eravamo talmente allenati alla discussione collettiva e ordinata (uno per volta, dietro prenotazione) che, avendo partecipato alla prima riunione di partito (socialista), dove gli interventi si incrociavano e ostacolavano a vicenda, due di noi si guardarono in faccia esclamando: «Ma qui sono ubriachi! Non si accorgono che in questo modo la discussione non va avanti di un centimetro?». Avevamo sedici anni e nessuna televisione-spazzatura ha poi potuto convincerci della opportunità e della liceità dei dibattiti vocianti, dove ognuno sovrappone il suo discorso a quello dell’avversario, cercando di gridare più forte di lui. Bisognerebbe che il moderatore oscurasse le telecamere, il rimedio più semplice per frenare questo malcostume.
Salvatore Geraci morì senza darci alcun preavviso. Improvvisamente, nella notte tra un sabato e una domenica di aprile, lo stroncò un attacco di angina pectoris. La notizia si diffuse in città in un baleno e molti di noi ci recammo nella sua abitazione e sfilammo ordinatamente davanti alla salma di un uomo che il giorno prima ci aveva parlato di realismo cristiano e di idealismo greco, commentando un famoso libro di Lucien Laberthonnière dedicato a questo tema. La faccia del defunto aveva un’espressione tesa, come di chi avesse lottato contro la morte con lancinante sofferenza. La fascia bianca, che passando sotto il mento era annodata sulla testa per tenergli chiusa la bocca, mi parve uno sgarbo della sorte per un uomo nell’aspetto del quale nessuno di noi avev a mai visto un solo capello fuori posto.
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Colto e distaccato Geraci, colto e cameratesco il suo collega per le lettere italiane, Vito Tanteri (1906-1964). In lui la continua cognizione del dolore potenziava la naturale nobiltà dell’animo. Lo sentivi come un compagno capace di comprendere e sempre pronto a soccorrere generosamente il bisogno altrui. Mentre con Santangelo e, più ancora, con Geraci restava sempre l’invisibile barriera che separa il professore dagli allievi, quella barriera cadeva di colpo non appena il nervoso insegnante di italiano cominciava a leggere un classico. Tanteri conosceva a memoria pressoché tutta la Divina Commedia, ma fingeva di leggerla da un suo inseparabile testo, come certi solisti fuoriclasse fingono di seguire lo spartito musicale di un brano che conoscono già perfettamente. Peraltro non ci impose mai di imparare a mente una sola terzina. Col risultato che molti di noi ancora oggi sono capaci di recitare senza testo il canto di Ulisse o quello di Paolo e Francesca, appresi per spontaneo interesse personale.
Pur essendo un esperto viscerale della Commedia, Tanteri era preparato su tutto l’arco della letteratura italiana, di cui signorilmente conosceva testi e critica. Però non era questo che ne faceva la singolare grandezza, nessuna scienza essendo in grado di abbattere il muro di noia, lo zoccolo duro della costrizione che sempre residuano nell’istruzione scolastica. Ma in Tanteri si nascondeva un attore nato, e la sua arte di recitare era così potente da operare il miracolo dell’empatia universale. Se, durante le ore di filosofia, a dettare un religioso silenzio erano la soggezione e il farnetico di trova re la risposta giusta, quando Tanteri recitava un classico, il silenzio era quello di un teatro nel quale un capolavoro trovasse l’interprete d’eccezione capace di farlo rivivere per tutti sulla scena. La sua voce, naturalmente baritonale come quella di molti fumatori accaniti, recitando si piegava a un numero incredibile di variazioni e trovava d’istinto il tono giusto.
La sua immedesimazione col personaggio e col contesto era perfetta, e riusciva naturale, priva di quel fastidioso accessorio istrionesco che spesso accompagna anche l’arte di attori eccellenti. Ce ne accorgemmo tutti nella mia classe, tutti lo toccammo con mano il giorno in cui gli studenti del liceo “Spedalieri” furono portati a teatro, a vedere Il berretto a sonagli di Pirandello. La rappresentazione cominciava alle undici del mattino e nelle prime due ore di lezione Tanteri ci fece la sorpresa di improvvisare a nostro beneficio la lettura della commedia. Nessuno si aspettava dall’appassionato dantista una risorsa così straordinaria di mezzi interpretativi, la duttile capacità di rendere al meglio le battute più sapide (sull’universo della corda seria e della corda pazza), ma anche di cogliere le sfumature più riposte del testo pirandelliano, per cui uno spaccato della società siciliana e della siciliana psicologia si veniva costituendo e imponendo all’attenzione di una scolaresca paralizzata dalla tensione dell’interesse.
A teatro, poi, il nostro godimento crebbe per via della conoscenza fresca del testo e per il complemento di una mirabile messinscena, dai costumi degli attori fino all’arredamento degli interni. Ma la recitazione non riuscì propriamente esaltante a chi aveva ascoltato la lettura precedente allo spettacolo. Era di ottimo livello, in linea con la tradizione alta del teatro catanese. Il protagonista non era un principiante né un atto re inadatto al ruolo impersonato. Ma… il Ciampa di Tanteri era un’altra cosa. Il registro mobilissimo della voce; la sapienza di pause sempre diversificate a seconda dell’imbarazzo o delle riflessioni che sottintendevano; il rievocato tono della secolare pazienza siciliana, portato con umiltà ma sempre pronto a cangiarsi in rivolta non appena “la signora” si fosse ostinata a calpestare la dignità (“il pupo”) del povero scrivano: tutto ciò aveva fatto di un’invenzione letteraria una figura viva in carne e ossa, che irresistibilmente gettava luce su ogni particolare dell’intreccio e potenziava gli altri personaggi. Talché nella scena-chiave, quando la signora Beatrice Fiorìca intuisce l’ineluttabilità della soluzione proposta da Ciampa, ossia il di lei forzato ricovero in manicomio, Tanteri superò se stesso nell’aggiungere al falsetto con cui aveva egregiamente dato vita agli isterismi del personaggio un acuto più alto e umano, che ne esprimeva lo stato di escandescenza e l’improvvisa presa di coscienza del proprio torto: “Ma che dite? Volete davvero che passi per pazza davanti a tutto il paese?”. All’unisono la classe era esplosa in una fragorosa risata liberatoria.
Ma su Leopardi, due anni dopo, c’era poco da ridere e secondo me, che conoscevo già l’idillio, poco anche da variare nella recitazione:
Sempre caro mi fu quest’ermo colle,
e questa siepe, che da tanta parte
dell’ultimo orizzonte il guardo esclude.
L’andante dei primi tre endecasillabi fu infatti pronunciato in tono piano e uniforme. Seguì una breve pausa e alla ripresa (Ma sedendo e mirando) la voce di Tanteri era già un’altra: più pensosa e trepidante, pronta a suggerire il senso dell’immensità spaziale e temporale, e il drammatico passaggio da un idillio protetto allo scenario sublime ma inumano della notte dei tempi. Era come se sentissi per la prima volta i versi dell’lnfinito. Cominciai a perdere il controllo di me stesso. Volevo restare attento alla lettura e al commento, ma il demone dell’empatia era così forte da indurmi a cercare nel mio passato un’esperienza analoga a quella del poeta. In fondo anch’io ero nato in un piccolo borgo arroccato su una montagna, dove il vento stormiva tra le piante e tra le case d’inverno come d’estate. Cerca e ricerca, la mia esperienza dell’infinito affiorò alla mente con la forza di un’illuminazione. Non si trattava di un infinito negato da ostacoli e mentalmente evocato come a Recanati, ma della ostensione diretta della sua immensità, orrida per i limiti di un bambino.
Avevo nove anni e, stanco di ciondolare da un divano all’altro in attesa che i grandi (i genitori e due sorelle maggiori) smettessero di ballare nel veglione di mezz’agosto, mi decisi a infilare la porta d’uscita per vagare in paese nella piacevole notte d’estate. Cammina cammina, finii fuori dall’abitato, in un viale alberato come sospeso sulla campagna torno torno sottostante e concluso dalla rovina di un mausoleo romano. Non sono mai stato coraggioso ma, ora come allora, posseggo intero il coraggio dei timidi e, talvolta, degli incoscienti. Passai tra le colonne d’ingresso al viale come se fossero le colonne d’Ercole. Sapevo che alle due di notte in quell’estremo lembo del giardino pubblico non poteva esserci anima viva. Ma non avevo immaginato come un posto idilliaco alla luce del sole potesse di notte trasformarsi nel regno dell’ignoto. In questo regno padrona assoluta era la tramontana, il vento che stormiva tra le fronde dei pini e faceva risuonare ogni mio passo di un’eco sinistra.
Perché mi ostinai a consegnarmi alle tenebre?Forse per il gusto di trasgredire le leggi della prudenza o per il desiderio di un’avventura fuori dal comune. Certo, non per coraggio: ero teso come una corda di violino e il mio udito si era trasformato in un organo capace di sentire il rumore di una foglia. La mia audacia fu comunque premiata. Sono sicuro che la musica, il dono più universale che agli uomini sia stato dato, a me si rivelò per la prima volta in quella notte di mezz’estate. Tutt’intorno al viale la campagna era un immenso pozzo nero dove dormivano uomini e animali. Ma non le innumerevoli e invisibili cicale che cantavano senza posa. Si era così creata una inaudita corrispondenza tra il sibilo del vento e il frinire delle cicale, un’armonia ininterrotta che andava e veniva dagli alberi del viale alla campagna sottostante, uno scambio musicale così perfetto, tra l’aria e la terra, che né l’una né l’altra sembravano stancarsene. E poi l’epifania dell’infinito: in alto, alla sinistra del viale, si stagliava la sagoma imponente dell’Etna, una stupenda piramide blu leggermente schiacciata e ondulata. Sembrava un gigante bonario che sorvegliasse il riposo di piante e animali, dei suoi numerosi figli e nipoti: Adrano, Biancavilla, Santa Maria di Licodia dormivano placidamente ai suoi piedi, luminarie scintillanti appese a un grande albero di Natale. Più avanti, laggiù a valle, le acque del Salso strisciavano come un serpente abbagliato dalla luna. Mi fermai appoggiato a una cancellata, paralizzato tra la paura e l’ammirazione per l’infinito che mi stava davanti. E chi sa per quanto tempo ancora sarei rimasto in contemplazione, se le note di una musica familiare non fossero arrivate al mio orecchio. Era la mazurka che l’orchestra intonava per accompagnare la solenne controdanza, un ballo figurato e un po’ fuori moda, con cui allora si concludevano i veglioni più importanti. Mi scossi di soprassalto e mi precipitai a tornare alla festa prima che fosse troppo tardi.
Intanto, mentre mi ero sperduto alla ricerca del mio infinito, Tanteri aveva avuto il tempo di leggere l’idillio leopardiano e di spiegarlo da par suo pezzo per pezzo con un commento di cui alla mia mente trasognata erano giunti pallidi frammenti. Il commento peraltro era per il professore una sorta di male necessario: per quanto utile, comportava la dissezione di un organismo vivo. Il quale doveva perciò essere alla fine ricostituito nella sua integrità. L’ultima parola spettava al poeta e così anche l’Infinito fu sottoposto alla lettura finale. Tanteri aveva appena finito di riprendersi dal dolce naufragar leopardiano quando si accorse che, a pochi metri da lui, qualcuno era ancora prigioniero di quel naufragio. Mi sorprese in uno stato di trance, gli occhi assenti e fissi sulla parete contigua alla cattedra. In evidente imbarazzo, la mia compagna di banco stava per darmi una gomitata. Ma quel singolare homo ludens le strizzo l’occhio facendole intendere di non muoversi. Quasi avesse di fronte un sonnambulo di cui bisognava rispettare il sogno sino alla fine, si diede a recitare ancora una volta l’idillio leopardiano. Io continuavo a inseguire i miei ricordi, ma ci pensò il vecchio bidello dell’istituto a svegliarmi in modo più brusco di quanto a suo tempo non avessero fatto le note della mazurka. Con precisione cronometrica il piccolo ma gallonato custode dell’ordine liceale alla mezza di ogni ora dava di piglio all’apposita corda e scuoteva più volte la campana i cui squillanti rintocchi segnavano il confine tra una lezione e l’altra. Rinvenni senza potere soffocare interamente un grido di sgomento, che suscitò l’ilarità generale. Rideva anche Tanteri, contento dello scherzo che aveva ideato a beneficio collettivo.
Già negli anni in cui fui suo allievo (1956-58) l’insorgere di un grave disturbo nervoso giocava brutti scherzi all’egregio italianista. Tra l’altro gli procurava improvvisi vuoti di memoria, ai quali l’indole appassionata dell’uomo reagiva con violente pacche del palmo della mano sull’ampia e corrugata fronte. Più avanti nel tempo il palmo della mano fu sostituito dal pugno chiuso e gli occhi, che inizialmente avevano guizzato di sdegnoso stupore, cominciarono a mandare anche lampi di disperazione. Vito Tanteri morì a cinquantotto anni, consumato da un male, la depressione, tuttora terribile, ma allora, non sempre riconosciuto né contrastato dalla terapia degli psicofarmaci, semplicemente disumano e più inesorabile di un cancro maligno.
Il suo merito più grande non fu quello di averci insegnato a scrivere senza retorica e a coltivare l’amore per la poesia, che pure non sono traguardi d’importanza secondaria, ma quello di averci educato a parlare e scrivere in modo coerente con le nostre convinzioni. Il suo coraggio e il suo piacere dell’onestà erano contagiosi. Crociano in estetica, non lo era in politica. Ritenne anzi incoerente la scelta del filosofo di restare nel vecchio partito liberale, votato alla conservazione e chiuso agli ideali di giustizia e libertà. Teneva piuttosto per Adolfo Omodeo e Luigi Russo. E quando quest’ultimo, reo di essersi candidato nelle file del fronte popolare, fu da un ministro democristiano destituito irritualmente dalla direzione della Scuola Normale Superiore di Pisa, Tanteri ne rimase sconcertato.
Molte cose lo indignavano negli anni della guerra fredda, ma il suo cruccio principale era la scuola pubblica, le cui sorti declinavano e languivano. Nella miseria alla quale era abbandonata l’istruzione pubblica Tanteri non vedeva il frutto di una casuale negligenza dei governi democristiani, ma un disegno politico ben preciso. Umiliando la scuola pubblica, pagando i suoi docenti con stipendi miserabili, si scoraggiavano i migliori dalla carriera dell’insegnamento. Così, mentre si dava ossigeno alla screditata scuola privata, si trasformava l’istruzione pubblica in una fucina di conformismo. Quando sentivo le sue parole, avevo allora l’impressione di una diagnosi parzialmente vera, ma piuttosto esagerata.
Oggi, di fronte alla parabola compiuta dalla nostra scuola, come dargli torto?
1 Giuseppe Dolei, Compagni di viaggio: ricordi e ritratti, Artemide, Roma 2004, pp. 13-24.