L’accento emiliano, la voce grave e avvolgente. Le pause tra un pensiero e l’altro. Una platea di ragazzi, il silenzio in sala. Le suggestioni di una bellezza perduta.
In occasione dell’incontro con Ivano Dionigi, professore ordinario di Lingua e letteratura latina a Bologna e rettore emerito della stessa Università, ospite presso la nostra Biblioteca il 23 marzo, la domanda che sorge spontanea è proprio questa: può davvero ormai dirsi perduta la bellezza, la suggestione del mondo antico? “Il presente non basta”, afferma Dionigi nel suo libro, del quale alla fine del suo intervento si accinge a firmare le copie di studenti e professori entusiasti.
La lezione dell’antico, del latino in particolare, è eterna, e si articola entro tre fondamentali concetti -la parola, la politica, il tempo- che fanno da opaco e distorto specchio a valori ormai perduti nel chiasso della modernità. Eppure, ciò che è stato possibile trarre non è affatto una nostalgica considerazione di una fertilità dei classici ormai scaduta al giorno d’oggi; la consapevolezza è quella, invece, di un mondo in continua evoluzione, in continua trasformazione, che ha solo bisogno di recuperare le sue più intime origini.
La riflessione sul primato della parola implica la concezione di quest’ultima come materia prima, il cui dirompente valore comunicativo è affidato alla responsabilità degli eloquentes homines (saremmo forse proprio noi classicisti?), capaci di conciliare l’ars dicendi alla sapientia; e si parla di responsabilità proprio alla luce della dilagante odierna corruzione del linguaggio, ormai “finto e sintetico”, e dell’erronea attribuzione di significato che scaturisce dalla perdita di un’attenzione etimologica e dalla conseguente ricaduta nei cosiddetti verba obvia. Il professore parla addirittura della “necessità di una nuova Pentecoste laica” che riaffermi l’importanza di un linguaggio coerente e di un dialogo tra ciascuna individualità umana, che “in quanto penisola necessita di un’interazione autentica e non insulare”. Quindi, in siffatto contesto, perché i classici? Perché proprio i classici ci avviano alla comunicazione efficace ed autentica, base di qualunque forma di relazione interpersonale e sociale, dichiarando così la vittoria ultima dell’eloquens sul semplice loquens.
Sull’aspetto più spiccatamente sociale verte poi il secondo punto, quello della nobiltà della politica. Anche qui, mai come oggi sarebbe salvifica l’idea, assunta a modello, che avevano gli antichi della politica. Ciò che sostanzialmente appare irrimediabilmente perduto è il valore della dimensione comune, il senso della “cosa pubblica”. Per Aristotele l’uomo è un animale politico, un essere, cioè, che non può prescindere dall’esperienza della pòlis o, se vogliamo, della civitas in senso latino; chi vive isolato, insuperbito nella sua ambizione di autosufficienza dalla società, “o è bestia, o è dio”.
Il terzo e ultimo punto, la centralità del tempo, costituisce infine una sorta di chiave di lettura dell’intera conferenza. Abbiamo già accennato a “Il presente non basta” che, già dal titolo, conferisce ai classici un valore sempiterno. Dobbiamo recuperare la suggestione verso il passato, “il pàthos della distanza” e “l’eros della differenza” contro l‘inferno e l’indifferenza dell’uguale. Stabilire quell’accordo costruttivo tra l’antico ed il moderno (che implica l’interessante e fallace dialettica tra “notum” e “novum”) tra l’umanista, cui è affidato l’onere della domanda, e lo scienziato, cui spetta invece quello della risposta, sul modello dell’ingegnere rinascimentale (Leonardo).
Si tratta quindi, per noi classicisti, di acquisire una consapevolezza tale da non asserragliarci in una dimensione intellettuale del tutto autoreferenziale e solipsistica, in definitiva inutile e stantia, ma, alla luce della nostra esperienza atemporale, di fornire alla realtà “un contraltare a questa modernità frettolosa e sudaticcia” che rischia di distruggersi da sé, di collassare su se stessa nel fragoroso boato dell’individualismo.
Ilenia Amato e Giulio Dipietro